Prigionieri Del Silenzio by Giampaolo Pansa
autore:Giampaolo Pansa [Pansa, Giampaolo]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2012-04-26T12:24:22+00:00
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«Il primo scaglione di deportati a Goli Otok comprendeva degli italiani?» domandò Pastorino.
«Non lo so. Bonelli sostiene che, tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, la repressione contro gli immigrati italiani, o almeno contro quelli arrivati in modo clandestino, come gli ex partigiani alla Scano o alla Catellani, fu blanda. L’Udba sapeva che erano quasi tutti cominformisti, ma che non avevano nessuna influenza sul partito jugoslavo. Inoltre, era gente che sperava di alzare i tacchi al più presto dalla Jugoslavia, per passare in Cecoslovacchia.»
«Sempre a sentire Bonelli, questa linea morbida dei servizi segreti s’indurì di colpo dopo il lancio dei manifestini a Fiume. Ma è probabile che la repressione contro i filosovietici italiani si sia accentuata nel quadro più generale del grande repulisti di quell’anno.»
«Ce lo fa pensare la testimonianza di Valerio Beltrame, pubblicata da Galliano Fogar nell’aprile 1993 su ‘Quale storia ‘, la rivista dell’Istituto della Resistenza di Trieste. Beltrame era uno dei monfalconesi del controesodo: 36 anni nel 1949, operaio portuale, comunista, già incarcerato in Italia sotto il fascismo e deferito al Tribunale speciale. Aveva lavorato nei cantieri di Fiume come bandaio, ossia come specializzato nell’uso della lamiera, e poi era passato all’Arsenale militare di Pola. Qui era diventato il direttore della mensa aziendale, che serviva ottocento persone. Ed era anche il responsabile sindacale degli operai di Monfalcone e dei polesani di lingua italiana al lavoro nell’Arsenale.»
«I suoi guai cominciarono nel giugno 1949. Quando in un’assemblea sindacale dei dipendenti dell’Arsenale e di altre fabbriche di Pola, un maggiore della marina militare, che sedeva al tavolo della presidenza, prese la parola e affrontò la questione del Cominform.»
«L’ufficiale disse che i cominformisti venivano messi a tacere in tutta la Jugoslavia. Però a Pola ce n’erano ancora di attivi, che mestavano nel torbido, soprattutto fra gli italiani. Erano loro i colpevoli delle disagiate condizioni dei lavoratori, le quinte colonne composte da veri nemici del popolo, che sabotavano il cammino della Jugoslavia verso il socialismo.»
«A replicargli, contestandolo, si alzarono Beltrame e altri operai di Monfalcone e la faccenda sembrò finire lì. Ma qualche giorno dopo, mentre ritornava dal lavoro con la moglie, Beltrame trovò ad aspettarlo due poliziotti in borghese. Erano dell’Udba. Gli perquisirono la casa, poi lo invitarono a seguirlo negli uffici della polizia politica.»
«Invece lo condussero al carcere di Pola, in via Santi Martiri. Qui rimase in cella per tre mesi, isolato, senza mai un’ora d’aria. Poi ne passò sei in compagnia di altri detenuti, ma sempre con il divieto di mettere piede nel cortile della prigione. Il medesimo regime punitivo lo stavano soffrendo i suoi compagni di Monfalcone, arrestati lo stesso giorno.»
«Perché lo avevano incarcerato? Beltrame lo seppe quasi subito, nel corso del primo interrogatorio condotto da cinque agenti dell’Udba, due dei quali in divisa e con la rivoltella. Il quintetto lo accusò di aver fatto parte di bande armate cominformiste, guidate dai sovietici e dal Pci. Poi di aver preparato piani di sabotaggio dell’Arsenale militare di Pola. E infine di aver tentato, per ordine del Cominform, di rovesciare il governo socialista iugoslavo.
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